
Eventi e cultura
Il critico Nicola Vacca si racconta attraverso la poesia
I prossimi lavori saranno su Rocco Scotellaro e Carmelo Bene
Terlizzi - domenica 13 febbraio 2022
0.15
Ritratti di figure femminili complicate, dall'esistenza perlopiù tormentata, riempiono l'antologia di Nicola Vacca, "Muse nascoste. La rivolta poetica delle donne": si tratta di un'indagine profonda sulla psiche di ventiquattro poetesse che hanno riservato alla carta i dispiaceri patiti per tentare di liberarsi dal male interiore che le affliggeva.
Le parole descrivono la dimensione più intima di donne inquiete che non sempre sono state ricordate nella letteratura come invece avrebbero meritato. Vacca ha scelto di dare loro una ulteriore voce, esaltandole quali intellettuali del Novecento, ad eccezione dell'ottocentesca puritana Emily Dickinson la cui penna si è distinta per mostrare tratti progressisti rispetto alla sua epoca.
Molte di esse, come Sylvia Plath, hanno scelto la via del suicidio per porre fine al dolore: Vacca ha contribuito a donare loro una nuova vita, raccontando della grandezza letteraria di ciascuna. Lo scrittore e critico gioiese ha colto l'occasione anche per raccontare se stesso attraverso la sua opera, arricchendo il bagaglio culturale di un uditorio attento lo scorso venerdì, 11 febbraio, nella sede di Città Civile.
La sua ultima partecipazione a Terlizzi in veste di relatore protagonista risale al 2015 quando ha presentato la raccolta di poesie "Luce Nera". Come definisce il rapporto con il nostro paese?
Terlizzi è sempre stata una delle prime tappe nei numerosi tour letterari degli anni passati. E ancora oggi ricopre un ruolo privilegiato. Qui riscopro una comunità di amici e di fratelli. Le serate si rivelano proficue perché alimentate dal dialogo e dalla reciprocità. Al termine di ogni incontro, porto con me un valore aggiunto su cui scrivere e pensare. La vostra è una terra d'intuizioni.
Cosa l'ha spinta a scrivere "Muse nascoste. La rivolta poetica delle donne"?
A me piace studiare, sono intrigato dalle parole. Mi considero un allievo di Giacomo Debenedetti. Il mio modo di fare critica trae le sue origini dalla lettura di narratori e poeti. Questi ultimi, poi, riescono a condividere la letteratura con la vita. Sono dedito al pensiero asistematico, prendendo le distanze dal piano del metodo che corre il rischio di rinchiudersi in una gabbia ideologica.
Un vocabolo di rilievo del mio ultimo lavoro è nel sottotitolo, "rivolta", la quale accomuna i ritratti delle poetesse. Il filo rosso è dato dal disagio esistenziale che è sfociato nella stesura di poesie. Ho avvertito l'esigenza di mappare delle voci irregolari la cui autorevolezza, con uno scorrere veloce del tempo, ha perso lo smalto.
Ho impiegato quattro anni per scrivere questo libro: l'ho concluso durante il primo lockdown a inizio pandemia quando ho ritrovato la giusta concentrazione per porvi un punto fermo.
Cosa rappresenta per lei la poesia?
Tutto quello che scrivo fa parte del mio personale romanzo di formazione. Gli scrittori e i poeti che mi formano rappresentano la mia bussola di orientamento e su di loro mi cimento con la redazione di pagine di approfondimento. Leggo anche autori che mi "deformano" ma non li assorbo nella mia sfera. Credo che il poeta debba affidarsi con autenticità ai gesti estremi della parola.
Oggi molta poesia è appiattita su se stessa: la lingua è omologata ed è priva di significato, votata alla banalità. I tempi odierni sono abitati da muse apparenti che vivono di rendita dell'ovvio: manca una forza estrema che mira all'abisso con una personalità autentica.
Diversamente, Sylvia Plath ad esempio, statunitense scomparsa nel 1963, ha provocato in me un dilaniarsi della coscienza: era una donna con una fortissima depressione causata da una relazione oscura con i suoi demoni. Non c'è verso della Plath che non sia severo verso la vita, risultando ultroneo. Bisogna lasciarsi andare alla lettura delle sue parole e affidarsi agli incubi che ne scaturiscono. Non era una persona luminosa, eppure il suo stile è vibratile.
Ci può essere poesia senza disperazione?
Si può scrivere accarezzando una "disperata vitalità", un ossimoro che mutuo da una poesia di Pier Paolo Pasolini.
Qual è il tempo del poeta?
Sicuramente quello della dissociazione la quale deve essere consapevolmente attraversata. Il poeta, cioè, deve essere dissociato da se stesso e dall'intervallo temporale in cui è collocato. È importante essere "l'anello che non tiene", per citare Eugenio Montale.
Esiste una linea meridionale della poesia?
Assolutamente sì, ne parla anche Oreste Macrì. A differenza della linea lombarda che si è consolidata, quella meridionale stenta ad affermarsi con i giusti riconoscimenti: si è registrato quasi un ostracismo culturale nei confronti del Sud Italia, nonostante la vena genuina di molti suoi letterati.
Quali sono i progetti per il futuro?
È imminente l'inaugurazione della rubrica "Alla ricerca della critica perduta". Inoltre mi dedicherò a un saggio su Rocco Scotellaro e a un libro su Carmelo Bene.
Le parole descrivono la dimensione più intima di donne inquiete che non sempre sono state ricordate nella letteratura come invece avrebbero meritato. Vacca ha scelto di dare loro una ulteriore voce, esaltandole quali intellettuali del Novecento, ad eccezione dell'ottocentesca puritana Emily Dickinson la cui penna si è distinta per mostrare tratti progressisti rispetto alla sua epoca.
Molte di esse, come Sylvia Plath, hanno scelto la via del suicidio per porre fine al dolore: Vacca ha contribuito a donare loro una nuova vita, raccontando della grandezza letteraria di ciascuna. Lo scrittore e critico gioiese ha colto l'occasione anche per raccontare se stesso attraverso la sua opera, arricchendo il bagaglio culturale di un uditorio attento lo scorso venerdì, 11 febbraio, nella sede di Città Civile.
La sua ultima partecipazione a Terlizzi in veste di relatore protagonista risale al 2015 quando ha presentato la raccolta di poesie "Luce Nera". Come definisce il rapporto con il nostro paese?
Terlizzi è sempre stata una delle prime tappe nei numerosi tour letterari degli anni passati. E ancora oggi ricopre un ruolo privilegiato. Qui riscopro una comunità di amici e di fratelli. Le serate si rivelano proficue perché alimentate dal dialogo e dalla reciprocità. Al termine di ogni incontro, porto con me un valore aggiunto su cui scrivere e pensare. La vostra è una terra d'intuizioni.
Cosa l'ha spinta a scrivere "Muse nascoste. La rivolta poetica delle donne"?
A me piace studiare, sono intrigato dalle parole. Mi considero un allievo di Giacomo Debenedetti. Il mio modo di fare critica trae le sue origini dalla lettura di narratori e poeti. Questi ultimi, poi, riescono a condividere la letteratura con la vita. Sono dedito al pensiero asistematico, prendendo le distanze dal piano del metodo che corre il rischio di rinchiudersi in una gabbia ideologica.
Un vocabolo di rilievo del mio ultimo lavoro è nel sottotitolo, "rivolta", la quale accomuna i ritratti delle poetesse. Il filo rosso è dato dal disagio esistenziale che è sfociato nella stesura di poesie. Ho avvertito l'esigenza di mappare delle voci irregolari la cui autorevolezza, con uno scorrere veloce del tempo, ha perso lo smalto.
Ho impiegato quattro anni per scrivere questo libro: l'ho concluso durante il primo lockdown a inizio pandemia quando ho ritrovato la giusta concentrazione per porvi un punto fermo.
Cosa rappresenta per lei la poesia?
Tutto quello che scrivo fa parte del mio personale romanzo di formazione. Gli scrittori e i poeti che mi formano rappresentano la mia bussola di orientamento e su di loro mi cimento con la redazione di pagine di approfondimento. Leggo anche autori che mi "deformano" ma non li assorbo nella mia sfera. Credo che il poeta debba affidarsi con autenticità ai gesti estremi della parola.
Oggi molta poesia è appiattita su se stessa: la lingua è omologata ed è priva di significato, votata alla banalità. I tempi odierni sono abitati da muse apparenti che vivono di rendita dell'ovvio: manca una forza estrema che mira all'abisso con una personalità autentica.
Diversamente, Sylvia Plath ad esempio, statunitense scomparsa nel 1963, ha provocato in me un dilaniarsi della coscienza: era una donna con una fortissima depressione causata da una relazione oscura con i suoi demoni. Non c'è verso della Plath che non sia severo verso la vita, risultando ultroneo. Bisogna lasciarsi andare alla lettura delle sue parole e affidarsi agli incubi che ne scaturiscono. Non era una persona luminosa, eppure il suo stile è vibratile.
Ci può essere poesia senza disperazione?
Si può scrivere accarezzando una "disperata vitalità", un ossimoro che mutuo da una poesia di Pier Paolo Pasolini.
Qual è il tempo del poeta?
Sicuramente quello della dissociazione la quale deve essere consapevolmente attraversata. Il poeta, cioè, deve essere dissociato da se stesso e dall'intervallo temporale in cui è collocato. È importante essere "l'anello che non tiene", per citare Eugenio Montale.
Esiste una linea meridionale della poesia?
Assolutamente sì, ne parla anche Oreste Macrì. A differenza della linea lombarda che si è consolidata, quella meridionale stenta ad affermarsi con i giusti riconoscimenti: si è registrato quasi un ostracismo culturale nei confronti del Sud Italia, nonostante la vena genuina di molti suoi letterati.
Quali sono i progetti per il futuro?
È imminente l'inaugurazione della rubrica "Alla ricerca della critica perduta". Inoltre mi dedicherò a un saggio su Rocco Scotellaro e a un libro su Carmelo Bene.